Quando si fa autocritica succede di frequente: chi prende decisioni resta dov’è, facendo autocritica per tutti e distribuendo ecumenicamente le responsabilità tra chi ha potere decisionale e chi non lo ha: “noi tuttiabbiamo sbagliato a fare X o Y. Non avevamo compreso, tutti insieme, ma adesso abbiamo un percorso chiaro davanti: non è il momento di dividerci, è il momento di lottare insieme”.
E’ un discorso che ha la sua presa, le sue ragioni, ci si uniforma senza entusiasmi, con senso di responsabilità. Le cose vanno male e dato che vanno male, non è il momento di mettere in discussione la “leadership”. Dopotutto non si è protestato quando le decisioni sono state prese, quindi adesso che senso avrebbe? Protestare con il senno di poi sarebbe chiaramente strumentale: si mostrerebbe di essere mossi da un sentimento di rivalsa, non da alte considerazioni ideali. Certo, è vero: quando le cose andavano bene si era deciso di restare coesi, per responsabilità, sempre lei. Se tutto va bene, non è il caso di rompere l’incantesimo. Se hai a cuore il progetto, se vuoi farne parte, in effetti, non disturbare chi sta in alto: bisogna collaborare.
Eccoci lì, quindi, tutti insieme nello stesso calderone (chi è responsabile delle decisioni prese e chi no), ci siamo arrivati per strade diverse e per ragioni diverse, adesso condividiamo. L’alternativa, si sa, non conviene. In Italia in particolare mostrare pensieri indipendenti è pericoloso: lo è sul posto di lavoro, lo è nell’amministrazione pubblica, lo è nel settore privato dell’impresa, nelle università, figuriamoci nei partiti. L’Italia ha organizzato ormai tutto il Paese intorno alla selezione di soggetti funzionali alla conservazione di chi seleziona: un tempo si sarebbe detto alla conservazione del potere, piccolo o grande che sia, ma quello prevede una visione più di sistema, più istituzionalizzata. Qui si tratta proprio di Pinco Pallino che vuole restare dove sta. Per sempre. Come il Papa… anzi, più del Papa.
Tutto questo sistema si regge su un cardine fondamentale: il nome di questo cardine è ricattabilità. Non critico il mio capo se da lui dipende il rinnovo del mio contratto trimestrale, non fornisco idee nuove se queste non sono in linea con quanto fissato da chi comanda, non mi espongo sottolineando chi abbia preso le eventuali decisioni sbagliate se so che ne ricaverò solo un danno.
Ho partecipato anche io al gioco: i motivi possono essere tanti, a posteriori anche razionalmente impeccabili, altruisti, “alti”, ma in fondo è sempre una questione di paura.
Paura di vedere bruciato un progetto che si vorrebbe vedere arrivare in porto, paura di parlare al momento “sbagliato” minando il percorso tuo proprio o di chi ti viene (anche impropriamente) collegato: dopotutto questo progetto a cui si è lavorato tanto, questo percorso di cui si vuole avere cura non valgono forse un rospo ingoiato una volta in più? Il punto sono le idee, non l’orgoglio personale, per cui anzi, bisogna esporsi di più, nascondere sotto il tappeto ciò che si ritiene sbagliato e improprio e guardare al quadro d’insieme e anche quello, meglio se di sfuggita.
Così, mano a mano che si va avanti, la responsabilità viene caricata sulle spalle di chi non conta un cazzo e tolta dalle spalle di chi decide. Chi ci mette le energie e la faccia e chi ne trae i frutti, chi si consuma e chi si preserva. Non è mai stata una scelta, si sta banalmente cedendo ad un ricatto. Nella trattativa c’è una parte forte e c’è una parte debole. C’è chi lo subisce e chi lo pratica. Chi ha qualcosa da perdere -o pensa di averla- e chi decide cosa andrà perso e da chi.
Come se niente fosse, si passa dalla rivoluzione permanente alla preservazione perpetua: si possono forse dare responsabilità al ricattato? Sì, un po’. Molte meno di quelle che vanno date al ricattatore.